2 commenti su “With a Girl of Black Soil

  1. Siamo alle solite. Meglio intrattenimento o impegno? Meglio puntare dritto ai soldi e prendere una via facile per la distribuzione o provare ad ottenerla presentando il proprio film ai festival? Meglio una trama banalmente piena zeppa di eventi “cinematografici” o raccontare (una parte di) una storia usando semplicemente stacchi temporali rimanendone distaccati?
    Si sa qual è la mia opinione, che non è nemmeno quella più diffusa, anzi. Ed è per questo che in giro non si trovano recensioni particolarmente positive di questo film, molte di presunti “critici” italiani che dopo Venezia dell'altr'anno lo giudicarono privo di trama (ah!), lento, banale (ah!). Alcuni di questi nemmeno l'hanno visto, perchè la trama che scrivono è evidentemente “per sentito dire” dal momento che ha parti non vere.
    Io credo che il cinema abbia due possibilità: o andare nella direzione che hanno “imposto” gli yankee, o andare in quella di un recupero della sua capacità di emozionare e raccontare senza sbragare, senza imbrogliare, senza fregare, senza politicare, senza democratizzare, senza pubblicizzare, senza ipocrisia e secondi fini.
    Ma tanto questa scelta è già stata fatta, e all'altra sono state lasciate le briciole giusto per non dare l'impressione di averla fatta morire di fame.

  2. Aggiungo, giusto perchи…è mia, la recensione che ho scritto per accompagnare i sottotitoli che ho tradotto e poi postato sul sito asianworld.it

    With a Girl of Black Soil
    (Geom-eun Ddang-eui So-nyeo-wa)

    Corea, 2007

    Regia: Jeon Soo-il

    Sceneggiatura: Jeon Soo-il e Jeong Soon-yeong

    Interpreti: Yoo Yeon-mi (Yeong-rim), Park Hyeon-woo (Dong-goo), Jo Yeong-jin (Hae-gon)

    Versione sottotitoli: KMP

    to soil: sporcare, insudiciare, imbrattare, macchiare, insozzare; (fig) corrompere, depravare, contaminare; infangare, lordare.

    Presentato
    a Venezia l'anno scorso, “With a Girl of Black Soil” appartiene al
    cinema cosiddetto indipendente sudcoreano, che con sempre maggior
    vigore sta scavando un solco nei confronti del cinema mainstream. Da
    due anni a questa parte, da quando sono state dimezzate le quote
    (ovvero il numero di giorni durante i quali i cinema sudcoreani erano
    obbligati a proiettare esclusivamente film coreani) il cinema di
    cassetta deve fare i conti con una lotta quantomeno ardua con(tro) i
    colossi hollywoodiani (gli stessi che hanno fatto pressione per
    dimezzare le quote, che strano) da una parte, dall'altra cercano di
    “farsi belli” agli occhi dei produttori americani nella speranza di
    veder premiati i loro sforzi con l'acquisto dei diritti per l'ennesimo
    remake. Questo non significa che non possano uscire dal circuito
    ufficiale ottimi prodotti con risultati molto buoni sia come qualità
    che come pubblico (un caso su tutti, “The Chaser”), ma che il margine
    lasciato per raccontare storie normali di gente normale è sempre più
    esiguo. Così da qualche anno il cinema indipendente ha trovato la sua
    ragion d'essere in quel margine, raccontando (mi si scusi il gioco di
    parole) sempre più spesso storie di gente “ai margini”, in netto
    contrasto, anche e soprattutto visivamente, col modo di fare cinema cui
    la Sud Corea ci ha spesso abituato in quest'ultimo decennio. Non mi
    pare che l'aggettivo “neorealista” sia completamente fuori luogo nel
    caso di film come questo o del successivo “Cherry Tomato”: illustrati
    con una fotografia volutamente sporca, limitata sicuramente anche dalla
    scarsità dei mezzi a disposizione, con riprese spesso poco dinamiche
    (non è corretto parlare di “riprese fisse”, perchè spesso come in
    questo caso si usano quasi esclusivamente camere a mano), questi film
    raccontano attraverso le voci di quelli che i ricchi chiamerebbero
    “morti di fame” le loro vicende, o meglio come è peculiare in tutto il
    cinema, un solo, importante pezzetto della loro vita, attraversato il
    quale i personaggi acquistano, volenti o nolenti, maggiore
    consapevolezza, insomma “crescono” e vedono il mondo in maniera diversa.

    Protagonista
    di questa brusca “crescita” è la piccola Yeong-rim, che a soli 9 anni
    si trova (costretta) a prendere decisioni molto più grandi di lei. La
    mancanza di una figura materna all'inizio non sembra costituire un peso
    eccessivo, nè la povertà, nè la necessità di accudire un fratello
    mentalmente ritardato. E' la sua vita, e la vive senza deprimersi nè
    lamentarsi, con coraggio innato ed anche sicuramente acquisito,
    accudendo il fratello come farebbe con un fratello più piccolo,
    provando attrazione verso il pianoforte o intenerendosi, assieme al
    fratello, per dei gattini. E' quando le comincia a mancare anche la
    figura paterna (non solo nei suoi confronti, ma anche in quelli del
    fratello) che perderà quell'innocenza infantile che anche la più
    piccola Da-seong, protagonista di “Cherry Tomato”, aveva perso (“Ho
    rovinato un angelo come te” è quello che dice il nonno di Da-seong, nei
    sottotitoli).

    Queste
    vicende si svolgono sullo sfondo di una realtà di un piccolo villaggio
    minerario come tanti, di tante persone che per una vita hanno fatto un
    lavoro pericoloso e che li ha distrutti fisicamente, e del quale molti
    moriranno. Realtà non dissimile da quella di molti nostri operai, che
    magari per decenni hanno respirato l'amianto perchè i datori di lavoro,
    leggi alla mano, non lo ritenevano pericoloso. Di certo non ho mai
    sentito di qualcuno morto per aver contato troppe volte troppi soldi.
    In questo film i capi sono anche luridi ma piccoli truffatori, ancora
    più meschini perchè truffano la povera gente. E' un contesto forte,
    gelido, senza speranza questo suolo nero, eppure personalmente lo trovo
    credibile ed onesto, con meno retorica e ipocrisia di gran parte del
    resto cinematografico. E' questo il cinema che mi piace: quello che va
    nella direzione di un recupero della sua capacità di emozionare e
    raccontare senza sbragare, senza affabulare con storie inverosimili che
    durano giusto il tempo di un paio d'ore, che si limita a mostrare le
    brutture che imbruttiscono anche le cose più belle.

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